Patty Pravo, semplicemente un mito.

Patty Pravo, semplicemente un mito.

Pravo l’ha saputo dimostrare ancora una volta lo scorso 18 febbraio, il proprio straordinario talento, sul palcoscenico del Gran Teatro La Fenice di Venezia, la sua città natale, dove è ritornata per ricevere il prestigioso Cavalchina Award, conferitole per la superba parabola del suo lungo, favoloso percorso nella musica, ma anche per l’assoluta autonomia, la potente caratura di personalità, di donna e artista fuori da ogni possibile regola e definizione.

Arrivata in Sala Grande su un destriero candido, Patty Pravo ha cantato un suo cavallo di battaglia, Col tempo, versione italiana di Gino Paoli di un malinconico sublime brano del chansonnier francese Léo Ferré, Avec le temps, proposta in maniera icastica, essenziale e toccante. Portava un geometrico abito antracite dello stilista palestinese Jamal Taslaq, vita altocinta a ramages neri, su una gonna ampia e svasata, una corolla rovesciata di purezza rinascimentale. Lei, araldica e lontana, partecipe e struggente, un leggìo con lo spartito accanto e soltanto il pianoforte ad accompagnarla, stagliata su una penombra avvolgente. La sala, affollatissima di un pubblico d’ogni età e provenienza, convenuto alla Fenice in occasione del Gran Ballo in maschera della Cavalchina, messo in scena da Matteo Corvino, d’improvviso catalizzata, silenziosa, catturata all’unisono da uno di quegli attimi irripetibili, arcani che talvolta la sorte ti può regalare. Molti i francesi, alcuni, che non la conoscevano, subito affascinati, sedotti dal sortilegio in atto.

Una passione per Pravo condivisa Oltralpe da un esercito di aficionados, tra i quali Jean-Paul Gaultier, che in un’intervista la menzionava tra le figure più ispiranti della sua gioventù  e Christian Lacroix, che Patty la vedeva come un’incarnazione rocaille, un biscuit di Sèvres dai riflessi di tanagrina. Non ci sono dubbi, di lei, Patty Pravo, si è detto tutto e il contrario di tutto. Gipsy di lusso, oltraggiosa e spregiudicata, perennemente all’avanguardia, provocatoria e scandalosa, intellettuale, sofisticata, nomade, snob, totalmente noncurante del conformismo e delle bienséances borghesi ma insieme capace di un’aristocratica, irraggiungibile pregnanza estetica, di un astratto e allegorico distacco zen, ha attraversato da protagonista un’esistenza complessa e coerente, libera e tracciata come un Bildungsroman.

Patty dai mille amori e dalle infinite sfaccettature, nemica giurata di qualsiasi banale convenzionalità,  praticamente impossibile da classificare, da restringere in ambiti e categorie, quali che siano, nella musica e nella vita. Una, insomma, che si mette a cantare Tripoli 69, di Paolo Conte, nostalgico motivo rétro e controcorrente, venato di reminiscenze del periodo coloniale fascista, in piena ondata post ’68, che indomita, quando le pare, sfida il comune senso del pudore, che va avanti a oltranza, senza regrets né compromessi, costi quel che costi. È la bionda ragazza del Piper che passa dal pop yé-yé della domenica pomeriggio danzante a un’intensità d’interprete medianica, crepuscolare e scavata, amata da Luchino Visconti, dal coté intello quanto dalle casalinghe e dai giovani, ieri come oggi. La sua voce inconfondibile, dai toni bassi e oscuri, un contrasto di pieghe di velluto opulento e soffusioni sottili, filate, quasi irreali, è venata di mistero, di una malia quasi ipnotica, sospesa, che non conosce eclissi.

Un successo immenso, intramontabile, il suo, ma anche un itinerario intessuto di scelte scomode e periodi difficili, ritmato da cadute,  scontri all’arma bianca col pubblico, fughe e fulgide risurrezioni. Oggi sembra assai serena, Pravo, sorridente, ben oltre quella scorza scostante e serrata che ne ha siglato anni addietro il dato caratteriale. Una fenice, Patty, perennemente, necessariamente metamorfica. Inizi giovanissima, nel 1966, 45 anni di carriera, 27 album, 85 pubblicazioni internazionali, oltre 100 milioni di dischi venduti nel mondo. Nasce a Venezia nel 1948, Patty Pravo, alias Nicoletta Strambelli e della Città del Leone possiede la magia, l’unicità, lo charme imprendibile. Qui studia pianoforte, composizione e direzione d’orchestra al Conservatorio Benedetto Marcello, sotto la guida di maestri quali Ettore Gracis. Se la ricordano in molti, a Venezia, quella ragazzina pointue, indipendente, originale, dal look moody, un temperamento originale che già lasciava intravvedere le stigmate della diva.

Dal disco di debutto, Ragazzo triste, nel lontano 1966, all’ultimo, Il vento e le rose, miete successi che tuttora, costantemente reinterpretati, propone nei suoi live, dalla mitica Bambola, a Se perdo te, Sentimento, Il Paradiso, dall’onirismo 70, trasgressivo, sensuale e lisergico di due highlights quali Pazza Idea e Pensiero stupendo, fino alla metafisica dolcezza di E dimmi che non vuoi morire, solo per citarne alcuni. Quante canzoni epocali, nuances, tessere del mosaico sentimentale delle vite di noi tutti…. Just random, La solitudine, 1970, la poetica Morire tra le viole, del 1973, Lou Reed revisited per I giardini di Kensington, nello stesso anno la provocatoria surreale Autostop, del 1979 . Più vicine cronologicamente, Notti Guai Libertà nel 1998, Una donna da sognare del 2000, i lyrics sensuali e rarefatti, forse lievemente autobiografici, della meravigliosa L’immenso, 2002.

Prestigiose le sue collaborazioni, come quelle con mostri sacri quali Vinicius de Moraes, Léo Ferré, Jacques Brel -la sua scarnita e implacabile Non andare via, cover italiana firmata Gino Paoli della celeberrima Ne me quitte pas, è un autentico capolavoro- Neil Diamond. E poi, Lucio Battisti, Franco Battiato, Francesco Guccini, Roberto Vecchioni, Ivano Fossati, Francesco De Gregori, Vasco Rossi -un sodalizio espressivo che continua nel tempo con risultati magnifici-, Giuliano Sangiorgi, Sergio Bardotti e Morgan. Lungo l’arco del suo magistero ha esplorato i più vari e diversi territori creativi e artistici, ambiti musicali che vanno dal pop al classico francese, al rock nelle sue varie declinazioni, dal funk fino all’elettronica, espressioni che sono tutte presenti in lei, quando in palcoscenico propone i suoi concerti, seguiti da una audience che attraversa quattro generazioni.

Forse è la sua verità, quella che paga, quella che fa comunque la differenza, accanto a un rigore musicale ed espressivo al massimo livello. Ma chissà… il mito non ha ragioni. È, esiste, si rivela, inutile chiedersi perché. Né va dimenticato che Patty Pravo è autore in prima persona di alcuni dei suoi evergreen, ad esempio l’album Biafra, compreso nella classifica mondiale di  Rolling Stones. Non si contano i live, 120 date negli ultimi tre anni, con concerti sold out all’Arena di Verona, in tanti palazzetti dello sport, o in teatri come il Regio di Parma, lo Smeraldo a Milano, il Sistina a Roma. Patty Pravo è stata la prima cantante italiana a conseguire una vasta affermazione in Cina, dove ha contribuito non poco ad aprire la strada al rock, tramite performances e programmi televisivi, tra cui la prima trasmissione satellitare con un miliardo e 380 milioni di spettatori e infine un disco, Ideogrammi, del quale è pure autrice di ognuno dei brani che ha registrato.

Nel 2010 si esibisce ad Amman, in Giordania. Pluripremiata nel corso degli anni, l’ultimo riconoscimento, il Prix the Best, prima del premio veneziano, l’ha ottenuto a Parigi. Icona gay per eccellenza, ma parimenti adorata dal pubblico femminile, cui ha costantemente offerto ispirazione, Patty ha saputo come nessuno giocare con il fashion, sovvertendone magicamente le regole assodate, entrando ed uscendo di continuo da connotazioni stilistiche e ermeneutiche rimeditate con estro, virtuosismo e spiccata coloritura personale. Basti pensare a certi suoi proverbiali frames televisivi, ad esempio a Canzonissima, nel novembre 1970, mentre canta Tutt’al più, chignon-toupet elaborato, quasi settecentesco o ogivale, robe de soirée d’un nero iridescente, come dipinta sul corpo androgino, maquillage kabuki, il viso impenetrabile e diafano di una dea.

E quel finale, quel finale senza possibili repliche, tremendo e straziante come unicamente l’epitaffio di un amore può essere, à bout de souffle: “e allora, allora, basta…”. O ancora, eccola in un programma primi Settanta, in tuta optical,  rivaleggiando con i volumi solenni dell’architettura littoria dell’EUR sullo sfondo. In televisione riapproda al Festival di Sanremo nel febbraio 1984 come una cyber-geisha lunare, l’allure d’un idolo cinese, di un meraviglioso automa orientalista settecentesco, lo chic déco di Daisy Fellowes ritratta da Beaton nel 1935 al Bal Oriental.  Impareggiabile Patty, che per il rilancio catodico sullo stageset italiano più nazionalpopolare, dopo un esilio volontario dal Bel Paese di oltre tre anni, sceglie decisa un’atmosfera musicale parnassiana e sognante, quella di Per una bambola e una tunica signée Gianni Versace in maglia metallica argentea, un grande ventaglio di dentelle nera in mano.

Occhi blu pervinca, capelli biondi, lineamenti minuti e scolpiti, una bellezza smaltata, Patty è un mélange prodigioso tra le divine platinate del cinema 20 e 30, à la Carole Lombard, per intenderci, l’ambigua modernità swinging London di Twiggy e le flessuose sante tardo-gotiche di un grande pittore quattrocentesco veneto, Carlo Crivelli. Patty capricciosa e stakanovista, molto signora in Valentino couture per Vogue Italia nei 70, cotonature leonine, tenues neo-romantiche, stereometriche e bourgeois-glam, principesche o bohemian, vibes etniche, sperimentazioni incessanti.

Patty rocker, chiodo e pelle nera, una strana somiglianza con il “duca bianco” David Bowie. A noi racconta, mentre febbricitante e fulgida si trucca in fretta, pressata dal tempo, davanti a uno specchio a tre valve, in camerino alla Fenice, che la sua vera divisa, il suo must in termini di moda, è il binomio fuseaux e maglietta, da sempre. “Non sono affezionata agli abiti -sostiene Pravo- per me rappresentano soltanto l’habitus, la cifra d’appartenenza  di un particolare momento. E solo di quello. Non possiedo feticci, coperte di Linus, posso fare a meno di ogni cosa”.

Idem per gioielli, oggetti e perfino per le opere d’arte. “Di tutti i dipinti avuti dagli amici della Scuola di Piazza del Popolo, Tano Festa, Franco Angeli, da Mario Schifano in particolare, che per me era un fratello, un’anima gemella, ne ho conservato solo due. Ma non importa -aggiunge Patty Pravo- non è questione di possesso, di avere o non avere. Credo che contino molto di più valori come l’amicizia e la forza creativa, l’immaginario dell’esplosione energetica generosa e prepotente innescata da quei ragazzi, il plot di quella Roma fervida che era un’autentica fucina creativa, una città internazionale e avvolgente . L’avventurosa bellezza  di quel tempo perduto, di un intero tessuto di rapporti, relazioni, di segni e suggestioni rimangono vividi, inscritti dentro il mio cuore, nella mia mente, in un ricordo quotidiano e affettuoso, emotivo, indistruttibile”.

Da rimarcare pure la peculiare e raffinatissima gestualità di Patty Pravo, le sibilline geometrie tracciate nel vuoto muovendo leggiadra e barocca le mani, negli ultimi tempi forse più trattenuta, sfuggente, simbolica. Anche il milieu del cinema ha dato a Patty Pravo notevoli soddisfazioni. Le sono stati conferiti infatti il Nastro d’Argento e il Lunezia, oltre ad aver conseguito una nomination al David di Donatello, per l’inedito Sogno, scritto per il soundtrack del film Mine vaganti, 2010, regia di Ferzan Ozpetek, che contiene pure una versione di Pensiero stupendo. Attualmente è nelle sale con Come è bello far l’amore, un brano emozionante che fa parte della colonna sonora dell’omonima commedia di Fausto Brizzi, scaricabile su iTunes. Dal 3 marzo in poi, Pravo, a grande richiesta, affronta una nuova serie di concerti live  accompagnata da una band di sei elementi. Tour destinato a concludersi il 30 e 31 marzo prossimi, sul palcoscenico del Blue Note di Milano. Ad aprile invece, Patty esce con una nuova canzone appositamente composta per lei da Vasco Rossi.

Dal mese di giugno quindi, Patty Pravo parte per una tournée estiva che toccherà tutte le maggiori città italiane e ed estere. Il 24 maggio a Parigi le si apriranno le porte della leggendaria sala dell’Olympia, legata ai recital di Dalida, indimenticata artista cui Pravo qualche anno orsono ha dedicato uno stupendo omaggio Pour Toi. Ma i progetti di Patty non finiscono certo qui. Certamente saprà ancora stupirci con infinite sorprese e trasformazioni.

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di Cesare Cunaccia

Pubblicato: 28 febbraio 2012 – 07:00

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